La Banca del Ricordo

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La cucina è chiara, luminosa, dalle linee regolari e il sole quasi allo zenit ne espone ogni anfratto. Un orologio di dimensioni notevoli, dai caratteri essenziali, domina una parete e la lancetta dei secondi scocca ogni suo movimento con un suono cadenzato che rimbalza sulle pareti, mentre sembra gestire il silenzio liberato dalla televisione spenta come la bacchetta di un maestro d'orchestra, con la stessa identica sapienza.

Seduta su uno sgabello rosso accostato ad una penisola di marmo lucente, c'è una ragazza bionda. La giovane ha un piede penzolone con cui sferza l'aria mollemente; il busto è piegato sul piano e la testa retta dall'avambraccio che le fa da piedistallo. Sta scrivendo qualcosa su un foglio bianco, ma paiono ghirigori senza senso sgorgati per la necessità inconscia di dare forma a idee e pensieri. Allunga un braccio, coglie un telecomando e accende la televisione. I toni concitati di una cronista appena giunta sul luogo dell'ennesimo attentato terroristico riempiono la stanza in un istante. La donna, estremamente curata nell'aspetto, indossa un impermeabile rosso molto appariscente e dondola con estrema destrezza su un paio di tacchi a spillo con cui solca la scena del crimine. La ragazza ascolta solo pochi secondi dopodiché obbliga di nuovo l'apparecchio al silenzio.

Sbuffa, si guarda intorno, ciondola nervosamente. Afferra di nuovo la matita e la usa per alzare i lunghi capelli che le avvolgono le spalle come un mantello.

«Vorrei aprire anche io un conto alla Banca del Ricordo.» sussurra inaspettatamente, come se uno dei suoi sospiri avesse preso forma nelle parole a contatto con l'atmosfera.

«Cosa?»

Poco distante dalla giovane, una donna alta e snella, protetta da un grembiule a fiori allacciato in vita e al collo, sta sminuzzando delle verdure su un tagliere. Quell'affermazione la fa trasalire, tanto che rischia di tagliarsi un dito.

«Hai capito bene» incalza la giovane guardandola dritto negli occhi. Ogni concetto che esprime sembra assumere la forma di una sfida, ed è rassicurante rifugiarsi nel pensiero che sia solo un'epoca della vita passeggera e fugace, nulla a che vedere con il carattere e altre cose immutabili.

«Signorina, hai idea di quanto costi aprire un conto alla Banca del Ricordo? Non credo sia una cosa possibile in questo momento.» La donna si slaccia il grembiule e con un gesto di sconforto lo appoggia su un ripiano. China il capo e guarda la figlia di sottecchi. Da un po' di tempo confrontarsi con lei è come avere le vertigini in una stanza zeppa di cristalli. Certe volte si sente stanca ed è tentata di suscitare la sua pietà, ma poi si rende conto che è troppo presto e deve necessariamente tenerle testa ancora un bel po', per il suo bene.

«Quale sarebbe il motivo, poi?»

«Lo sai bene. Daniele. Quando rinasco, in qualunque parte del mondo sarà, voglio ricordarmi quello che mi ha fatto, ed evitare di incontrarlo per l'eternità.»

«Questo è proprio il genere di motivazioni per cui un conto alla Banca del Ricordo non verrà mai aperto. E poi sei troppo giovane!»

«Ho 17 anni, Mica 8!» la ragazzina incrocia le braccia sul petto e si serra dietro un broncio indisponente che la fa apparire ancora più giovane e immatura.

«Appunto, per quel che ne so potresti vivere ancora 100 anni, il che ovviamente ti auguro; sarebbe una spesa spropositata considerando il canone mensile.»

La giovane salta giù dallo sgabello sbuffando.

«Che bell'augurio che mi fai mamma, ti ringrazio. Vivere altri 100 anni!»

«Di Daniel potrai ricordarti per quest'intera vita. Quando sarai abbastanza matura deciderai se inserirlo o meno nel tuo conto alla Banca del Ricordo. Adesso questa famiglia deve concentrarsi su tuo padre e rimpinguare il suo conto con il ricordo della malattia che lo ha colpito. Diagnosticarla in anticipo nella prossima vita lo aiuterà ad evitarsi parecchie sofferenze.»

La ragazzina gironzola con lo sguardo, arriccia le labbra e giocherella con un ciuffo di capelli rimasto penzolone. Sta per dire qualcosa di cattivo, la madre lo sa ed è già pronta a parare.

«Non potrà mai sapere il momento in cui lo colpirà. Così potrebbe sprecare un'intera vita nel terrore e nell'angoscia. Oppure potrebbe non avere mai l'opportunità di verificare se esistono conti a lui intestati alla banca del ricordo.»

La madre inclina la testa e la fissa con espressione smarrita.

«Ancora con questa storia?»

«Tutti i miei amici hanno già fatto la verifica con i propri genitori. Solo io vago ancora nell'incertezza e non so se sono alla prima, alla seconda o a chissà quale vita.»

«Non mi interessa quello che fanno gli altri, lo sai bene. Siete troppo giovani per essere coinvolti così a fondo in questi discorsi. Tu sei mia figlia e io voglio proteggerti. La Banca del Ricordo non è un gioco, né uno strumento da utilizzare a proprio piacimento. Inoltre sai bene che non bastano i soldi perché i ricordi sono vagliati da una specifica e rigida commissione etica.»

«Seee, mamma! Ormai credi solo tu a questa favola! Lo sai che pagando una 'soprattassa' proporzionata alla richiesta è possibile depositare qualunque cosa si voglia. Basta bussare alle porte giuste. C'è gente benestante che deposita anche il ricordo di un taglio di capelli andato male.»

«Non so da che genere di persone tu apprenda questa informazioni e a dire la verità non voglio nemmeno saperlo. È a causa di questa gente senza scrupolo che proliferano quelle odiose agenzie della morte che ormai sono ovunque».

La giovane si avvicina nuovamente alla penisola e, spostando un cartone della pizza, ne tira fuori un volantino pubblicitario unto ma leggibile e lo pone dinanzi al volto della madre.

MORTE A PREZZI STRACCIATI. RISULTATO GARANTITO. SODDISFATTI O RIMBORSATI.

Poi sorride come solo un adolescente sa fare.

«Parlavi di queste forse?»

«C'è poco da ridere. Il Giudice sta facendo il lavaggio della testa a tutti, soprattutto ai giovani, e i morenti cominciano ad essere più dei viventi. È per questo che in casa mia non voglio sentire parlare di morte. Né ora né mai. Lo so che sei giovane e il tuo spirito freme ma dovresti più spesso fermarti a pensare a tutto quello che tuo padre ed io ti abbiamo insegnato. Meno di trecento anni fa gli uomini....»

« ...gli uomini non sapevano ancora cosa ci fosse dopo la morte. Ma la gente farebbe bene a ricordare che cinque vite sono molto poche e vanno utilizzate con razionalità. Lo so mamma, lo so. Perché non mi dici cosa depositerete tu e papà oltre le malattie? Mi fate continue prediche ma sulle cose serie mantenete il silenzio. Del vostro amore, non me ne avete mai parlato! Perché non depositate anche quello?»

«Non si può, tesoro. Non è ammesso. Probabilmente ci rincontreremo, le nostre anime si riconosceranno ugualmente, ma non potremo ricordare di essere stati innamorati e sposati.»

«Io dico che qualcuno lo fa.»

«Questo qualcuno deve amare il rischio perché potrebbe ritrovarsi a trascorrere una delle sue cinque vite senza sostanza fisica, il ché non deve essere molto piacevole.»

«Pensa invece che figo...tutto il giorno in giro a far scherzi e ad ascoltare quel che dice la gente senza esser visti.»

«Sì, molto figo. Per la settimana di Halloween, probabilmente. Per un centinaio di anni direi che è una tortura.»


Suona il campanello. La ragazza si guarda intorno disorientata mentre la madre si asciuga frettolosamente le mani al grembiule e corre verso il salone per aprire la porta principale. «Chi è?» chiede inseguendola.

«Laura. Tra dieci minuti c'è la diretta del Saggio Universale da Cagliari e la guardiamo insieme.»

Entra una donna robusta dal viso rotondo e i movimenti sgraziati.

Agitata e sorridente, si muove sicura di sé, lancia la borsa sul divano e si dirige verso la cucina. Il suo movimento deciso e frettoloso provoca uno spostamento d'aria che pare in grado di trascinare con sé qualunque cosa.

«Sta per morire, finalmente?» chiede la ragazza con tono impertinente mentre segue in fila la mamma e la sua amica, che le riversano addosso, in simultanea, un'espressione profondamente contrariata.

«Cosa dici? È gravemente malato ma ce la farà anche stavolta.»

«Mi dispiace per lui!»

«No, deve dispiacerti per te e per tutti quanti noi.»

«Se fossi stata io, col cavolo che aspettavo tutti questi anni e soffrivo tutte queste malattie!»

«Certo, tu non potresti mai essere una guida per il mondo, con questo caratterino che ti ritrovi.»

La giovane abbassa lo sguardo ma non è paga e lo madre lo sa. Eppure non vuole che la conversazione degeneri, non in quel momento.

«Cos' avrà poi di così speciale?» sbuffa con tono indisponente.

«Niente di che, sai. È soltanto l'ultimo uomo sulla terra a portare con sé il ricordo di com'era la vita quando l'uomo non sapeva.»

«Ah, ok! E chissenefrega glielo diciamo tutti in coro o solo io?»

«Vedi che sei una ragazzina e non capisci? Quest'uomo ha trovato in sé la forza per vivere le sue vite fino al tempo previsto, senza cercare scappatoie nelle morti convenienti ed ora è una guida, una inestimabile fonte di saggezza per il mondo intero.»

«Io non ci trovo nulla di rilevante per le nostre vite!»

Lo sguardo della madre adesso è autoritario, fulminante, perentorio e non ammette ulteriori repliche.

«Ok, d'accordo, sto zitta! Sto zitta!»

La giovane mostra i palmi delle mani e resta per qualche istante con le braccia alzate. Ricomincia a far penzolare un piede. Si dondola sullo sgabello e Laura la guarda furtivamente ingrigita, irritata dal fastidioso cigolio che produce. Vorrebbe urlarle di smetterla, ma ha troppo rispetto della sua amica per permettersi di farlo.

Finalmente la trasmissione televisiva comincia.

Compare sullo schermo un uomo anziano seduto su una sedia a rotelle dinanzi ad un leggio. La forte esposizione solare fa supporre che si trovi in un luogo aperto, quindi una successiva panoramica sugli ampi spazi verdi tutt'intorno ne da conferma. L'uomo è posizionato con la sua sedia mobile su un enorme palco di legno e, ai suoi lati, due file di panche assiepate di gente, lo coprono come in un abbraccio.

«Quando la morte ha scoperto le sue carte, lo ha fatto per rendersi attraente agli occhi degli uomini» comincia con una voce affaticata e stanca. «Non fatevi abbindolare dalle sue false promesse, nulla è come appare.»

L'atmosfera tutt'intorno a lui è imbevuta di un silenzio sacrale, oppressivo e apocalittico al tempo stesso. L'attesa delle parole è dilaniante ma rispettata con profonda meditazione.

Nella stanza di quella casa, invece, la stridula frizione provocata dal ferro che costituisce lo scheletro dello sgabello è ingombrante come un macigno e, quando Laura si volta all'indietro e rimprovera la ragazza con lo sguardo, la madre salta in piedi come una molla e afferra la sua giovane figlia per un braccio, costringendola ad alzarsi e a seguirla nel salone.

«Che ti prende? Che ho fatto?» protesta lei provando a liberarsi dalla presa.

Ma è una presa arrabbiata, possente, ancora abbastanza giovane da condizionare i comportamenti.

«Non hai fatto nulla!» le risponde la madre una volta giunte nel salone d'ingresso, abbastanza lontano da sottrarsi alle orecchie di Laura. Lascia la presa, ma nel farlo la strattona ancora un po'. «Il problema è che non conosci il rispetto.» continua mostrando un'espressione del viso contrita dalla rabbia. «Forse io non ho saputo insegnartelo. Forse te l'ho insegnato ma tu non sei stata capace di recepirlo. In ogni caso ti consiglio di sforzarti di fare un ripasso se hai intenzione di continuare a partecipare alle vicende che interessano questa famiglia.»

Restano qualche istante a fissarsi occhi negli occhi. Le pupille di entrambe tremano di rabbia mentre si affrontano in silenzio. Poi la ragazza arcua un sopracciglio e arriccia le labbra. «Bene, ho capito, non fa niente.» Si massaggia il braccio nel punto in cui la mamma lo ha agguantato ma continua a tenere lo sguardo ben fisso su di lei. «Se non posso avere risposte qui le cercherò altrove.» Il tono della voce si è abbassato di colpo. Vuole nascondere e far male allo stesso tempo.

La madre aggrotta lo sguardo e le punta un dito contro. Non può far finta di non aver sentito quella subdola minaccia. «Non ti azzardare a violare le regole che io e tuo padre ti abbiamo imposto, altrimenti...»

Laura irrompe improvvisamente nel salone. Il volto è pietrificato, ha difficoltà a parlare.

«È svenuto!» sillaba con la voce rotta dall'emozione. «Corri! Vieni a vedere!» Muove freneticamente le mani per incitare il movimento e il suo corpo grosso e flaccido rimbalza in ogni sua piccola particella come fosse composto di soli liquidi.

La madre si avvicina ancor di più al viso della figlia. Le sfiora quasi il naso. Il dito è sempre puntato e pare più minaccioso.

Ma non dice nulla. Imprime ancor di più lo sguardo nel suo, come fosse stato un timbro invisibile e dopo qualche secondo si volta e segue l'amica nella cucina, per raggiungere il televisore.

Rimasta sola la giovane di esibisce in una serie indecifrabile di smorfie, alcune limitate al viso, altre che coinvolgono il corpo intero. Servono a smorzare la tensione, a distendere i nervi, a non pensare. Perché le intenzioni sono già ben schierate nella mente, come una compatta legione di combattenti, e cominciano a dar segni d'insofferenza, prima discreti, pian piano sempre più indisponenti.

Gira su se stessa, si guarda intorno, lancia un'occhiata su per le scale. Quand'era bambina e si trasferirono in quella nuova abitazione, la loro villetta le pareva un castello. Giocava per le scale, nel giardinetto, giù in garage. Non c'era luogo al mondo in cui sarebbe potuta essere più felice. Adesso le appare come una prigione. Le norme sempre più restrittive sulla libera circolazione degli individui in città hanno ormai assunto le fattezze di un cappio al collo. E non c'è modo di sapere se e quando la situazione potrà migliorare.

Del tempo della libertà, quando si poteva uscire di casa a qualunque ora, ognuno quando aveva voglia, non poteva conservare alcun ricordo, ne aveva letto solo sui libri. Era stato prima di piazza San Marco, prima delle sacerdotesse del Papa, prima della Grande Influenza.

Esita ancora un po'. I suoi occhi si fermano senza accorgersene su una foto di famiglia appesa alla parete. Chiude gli occhi e accarezza il vetro che la protegge, ma poi abbassa la testa e il suo sguardo piomba di botto, come condizionato da una forza di gravità incontrastabile, verso la sua giacca di jeans appesa all'appendiabiti.

Serra di nuovo le palpebre, come chi si sta per gettare lucido e cosciente giù da un ponte, controlla la consistenza del suo cellulare nella tasca posteriore del pantalone, quindi afferra con un gesto rapido la giacca e si lancia a testa bassa verso la porta principale. La apre. Un'occhiata fugace a destra e sinistra. Nessuno. Il silenzio l'avvolge subito, come una guaina soffocante. Ancora uno sguardo all'interno del suo adorato castello, quindi chiude più piano che può lasciandosi alle spalle un breve e silenzioso click.

E' fuori. E' uscita. Non è male. L'aria esterna è come gas esilarante che dipinge sul suo viso un sorriso compiaciuto. È quello che desidera da una vita e l'ha fatto. Giusto così, la madre lo merita pienamente. Anche due suoi compagni di classe escono segretamente. Si incontrano in una specie di caverna ricavata sotto la nuova triplice barriera di scogli con cui si cerca di arginare la furia del mare. Nessuno può vederli e non c'è alcun pericolo. Stanno un po' insieme e poi tutti a casa. I genitori nella maggior parte dei casi non se ne accorgono nemmeno. Chiudono a chiave la porta della stanza ed escono dalla finestra. La prossima volta, con più organizzazione, farà la stessa cosa. Ora deve godersi il momento, non pensare a null'altro.

Terminata la conferenza del Saggio Universale, Laura si congeda dalla sua amica con i soliti convenevoli. In prossimità dell'uscio si avvolge il capo con una sciarpa scura di seta e indossa una mascherina che le copre naso e bocca. E' irriconoscibile. Una volta fuori casa comincia a marciare a passo svelto, senza voltarsi indietro. Abita nella strada a fianco quindi raggiungerà casa sua in brevissimo tempo, non c'è d'aver paura. Inoltre sa di essere protetta dallo sguardo della sua amica che la segue fino all'ultimo istante, fino a quando la sua immagine non scompare completamente.

La donna alta e snella torna in casa rapidamente e richiude la porta alle sue spalle. Appoggia la schiena a quella tavola di legno blindata che la protegge dal resto del mondo e con gli occhi chiusi comincia a piangere, singhiozzando rumorosamente.

Quando riesce a calmarsi torna alla finestra e osserva rapita il cielo, quel cielo sconosciuto, coperto da una fitta coltre di nubi, che osserva tutti loro continuamente in bilico sulla linea di demarcazione tra l'inferno e il paradiso.

Si volta verso l'interno della casa, fa qualche passo poi si ferma. Rimane qualche istante immobile, dritta in mezzo al salone con lo sguardo crucciato.

Fissa un punto imprecisato della stanza.

D'improvviso l'orologio della cucina pare aver accelerato il suo passo e aumentato il volume sonoro, tanto che il ticchettio della lancetta dei secondi sembra diventato un gong rimbombante.

Il suo sesto senso, che le fa sempre da guida, le trasmette una scarica elettrica e il suo sguardo punta dritto, come il mirino di un fucile ad alta precisione, all'appendiabiti del salone.

Si avvicina a passo lento e misurato, allunga le mani dalle dita affusolate e scosta lentamente i tessuti dei giubbotti appesi. Li alza, li rimette giù, poi li alza di nuovo. Il movimento lento e guardingo acquista velocità in maniera esponenziale fino a quando i giubbotti e le giacche volano nell'aria come uccelli rapaci lasciando esposto lo scheletro dell'appendiabiti come quello di una preda che hanno spolpato.

La donna, piegata in avanti, fa dei passi indietro, poi si mette le mani alla gola, come volesse spremerla e incitarla ad emettere suoni. Ma questa non risponde agli impulsi. Poi finalmente si decide a farlo.

«Luciano!Luciano!» il suo richiamo è disperato, convulso, continuato.

Un uomo appare quasi subito dietro l'apertura cigolante della porta antincendio che suddivide il garage dalla zona giorno. È una figura sbiadita, poco nitida nei contorni, ma può bastare.

«Che succede, Lia?» esclama l'uomo sgranando gli occhi. Conosce sua moglie come una persona posata e riflessiva. Vederla in ginocchio, con il volto tra le mani, accende istantaneamente e tutti insieme i campanelli d'allarme di cui è dotato.

«Sofia...» sbiascica la moglie con un fil di voce strozzato. «Sofia è uscita!»

Luciano rimane qualche istante immobile, poi afferra la donna per le braccia e l'aiuta ad alzarsi.

«Che significa è uscita?»

Il suo volto è già paralizzato dal terrore. Attende qualche secondo, fissando la moglie negli occhi. Ma il suo silenzio è la più eloquente delle risposte.

«Come fai a dirlo?» chiede senza attendere risposta «Come fai? Forse è di sopra! Forse non l'hai sentita salire.»

Il panico è ormai padrone della scena e impedisce ragionamenti lucidi.

«Abbiamo litigato e ha preso la giacca» sentenzia la donna facendo piombare sul capo dell'uomo la mannaia che vedeva ormai già da qualche minuto pendere sul suo capo.

Quindi si abbracciano, senza proferir parola.

Lei poi si stacca violentemente e acuisce lo sguardo.

«Vado a cercarla.»

Sofia cammina a testa bassa con il passo spedito che riduce e aumenta la tensione dello stesso grado,

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